Casa S. Stefano
Casa S. Stefano, una Struttura di Seconda Accoglienza per adulti di sesso maschile in situazione di povertà e di esclusione sociale che l'Associazione gestisce dal 2023 su mandato della Caritas diocesana.
Non è un dormitorio o una casa di prima accoglienza: non è un posto in cui le persone che non hanno casa, se c'è posto, possono rimanere a dormire per un periodo di tempo. Il funzionamento è molto diverso: si tratta di un posto in cui alcune persone in condizione di povertà ed esclusione sociale entrano, dopo un percorso di conoscenza. Assieme a loro si cerca di costruire un progetto di reinserimento sociale che mira all'autonomia individuale.
Casa S. Stefano vuole essere anche una piccola "comunità", un posto in cui ospiti, operatori e volontari si incontrano, costruiscono relazioni e vivono la quotidianità. Si tratta di una bella possibilità per i volontari di conoscere persone che hanno fatto percorsi diversi dal proprio, spesso che vengono da altre parti del mondo e passare assieme a loro del tempo in maniera costruttiva.
La casa è aperta tutti i giorni, 365 giorni l'anno e, negli ultimi mesi, quasi 24 ore su 24; può ospitare fino ad un massimo di 10 persone che vengono accolte in camere doppie. La permanenza in casa dipende dal Progetto di accoglienza e di reinserimento che si predispone assieme all'ospite.
La cena rappresenta il più bel momento comunitario della giornata: ci si ritrova attorno al tavolo del refettorio, gli operatori aiutano ospiti e volontari a conoscersi: è una bella occasione per incontrarsi, raccontarsi condividere la giornata e discutere di attualità.
Gli ospiti della struttura provengono da mondi, storie e situazioni completamente diverse. Negli ultimi anni molti sono migranti in uscita da progetti di accoglienza per richiedenti protezione internazionale, tante sono le persone senza dimora, molti altri sono i "neomaggiorenni": ragazzi arrivati in Italia da minorenni, affidati alle Comunità educative e che al compimento del diciottesimo anno di età non hanno ancora raggiunto l'autonomia e non hanno un altro posto dove andare.
Per accedere alla casa c'è un percorso di conoscenza formale, in collegamento col Centro di Ascolto e con le operatrici di Segretariato Sociale, attraverso cui si cerca di capire se la persona è pronta e ha intenzione di affrontare un percorso insieme. Successivamente si cerca di costruire assieme alla persona il progetto di reinserimento più adeguato. C'è poi un periodo di conoscenza informale in cui l'ospite frequenta il Centro Diurno e spesso cena in Casa per conoscere gli altri ospiti.
Negli ultimi anni il servizio sta sperimentando sempre maggiori forme di autonomia.
Una Storia
Abdel, il sogno di un ragazzo già uomo
Ho tre volte l'età di Abdel eppure da subito ho la sensazione di parlare con un uomo già fatto, una persona di grande autorevolezza ed esperienza, ferma nello sguardo, austera nell'espressione. Scoprirò presto che non si tratta di distanza. Nel suo volto sono stampati i segni di una vita ancora breve ma intensa, come di chi è consapevole di aver iniziato da giovanissimo, suo malgrado, un viaggio pieno di incognite, tra scoperte e angosce, ma dove c'è ancora lo spazio per un sorriso e un sogno. Anche il tono della sua voce è puntuale e non lascia vuoti o incertezze, con il suo italiano fluente e ricco di vocaboli.
Il viaggio di Abdel è iniziato nella solitudine, a soli 16 anni, in partenza da un villaggio dell'Africa sub sahariana, la Guinea. In fuga dalla fame, dalla povertà assoluta, da un contesto familiare e sociale difficile, che non lascia intravvedere alcuna speranza di riscatto.
Oggi Abdel ha 22 anni e ricorda con precisione svizzera le date, i luoghi, le ore che hanno segnato gli eventi di questo incredibile cammino iniziato ben 6 anni fa. A partire dal percorso che l'ha portato dal suo paese fino a Lampedusa. Un viaggio pieno di rischi, durato due anni e qualche mese, attraversando i deserti del Mali, dell'Algeria, della Libia, inventandosi, ogni giorno, una possibile "via di salvezza". Sostenuto soltanto dal conforto di un ragazzo del suo stesso paese, conosciuto durante l'odissea.
Ed ecco il suo primo sorriso, donatomi con la bocca e con gli occhi, per descrivere i sentimenti provati al momento dello sbarco in terra italiana, avvenuto alle ore 18 del 20 settembre dell'anno 2015: "Ho provato una grande gioia, commozione". Appena un giorno di riposo poi comincia la sua avventura sul suolo italiano. È trasferito a Rieti, in un CAS – Centro di Accoglienza Straordinaria, un appartamento condiviso con altri tre ragazzi africani.
A Rieti Abdel comincia a familiarizzare con la nuova realtà di vita, frequenta un breve corso di lingua italiana, prende confidenza con il clima invernale, predispone, con l'aiuto degli operatori, la richiesta di asilo. A fine gennaio, dopo 4 mesi dall'arrivo, ottiene il riconoscimento del permesso per ragioni umanitarie.
A questo punto, non avendo più titolo a rimanere presso il CAS di Rieti, si trova al bivio tra essere inserito in uno SPRAR in Sicilia o tentare di intraprendere altre vie in autonomia. Decide di seguire il suo istinto, affidandosi in un primo momento ad un amico che poi lo lascerà abbandonato a sé stesso, senza più alcuna forma di assistenza.
Comincia per Abdel un un nuovo viaggio, questa volta in Italia, ancora una volta da solo, con il suo zainetto e tanta forza interiore. Un nuovo viaggio che ricomincia a febbraio, avendo come tetto il cielo, in un angolo di un parco pubblico, da lasciare ogni mattina alle prime ore dell'alba, per non essere scoperto.
"Ho iniziato a girare per le varie agenzie, alla ricerca di un lavoro. Una settimana dopo ho accettato un impiego in campagna, come guardiano di un gregge di capre. Dopo due settimane di lavoro, di fronte alla mia richiesta di regolarizzare il rapporto e definire il relativo compenso, sono stato invitato ad andarmene a mani vuote".
Abdel continua il racconto, come di un pellegrino che nel suo interminabile cammino incontra le tante facce di un'umanità a volte distratta, ostile, oppure solidale, generosa. Come quando riceve aiuto da una coppia che gli fornisce mezzi per il sostentamento immediato, un alloggio e una bicicletta. Ma Abdel, nei suoi pochi anni di vita ha radicalizzato il suo sogno, la sua meta è chiara, tanto da essere conquistata con la sua forte caparbietà. Pur di svolgere un lavoro e rendersi autonomo, accetta di trasferirsi in Sicilia e poi, dopo qualche mese, a Foggia richiamato da un amico, in uno dei tanti campi per la raccolta dei prodotti dell'agricoltura. Sperimentando ogni volta le terribili condizioni di vita in baracche prive di servizi essenziali e con retribuzioni al limite della sopravvivenza. No, non è un film inchiesta, è la verità.
La narrazione di Abdel è minuziosa, ricca di particolari. Comunicata con un'autorevolezza certificata dallo sguardo leale, sincero, profondo. Direi quasi fiero, se non altro per il forte senso di dignità che traspare dal suo racconto. In questo periodo anche Abdel incontra la sua stella. Nella piana foggiana si trova un ragazzo della Costa d'Avorio, studente universitario ad Ancona, selezionato dalla Caritas della Diocesi di Ancona-Osimo per l'anno del Servizio Civile: Mamadou è in Puglia per uno stage dedicato alla conoscenza e alla documentazione delle condizioni dei migranti ingaggiati tramite caporalato. È lì che Abdel conosce e diventa amico di Mamadou Ed è allora che Mamadou si "prende cura" di lui. Mamadou lo invita a venire ad Ancona dove fa di tutto per assicurargli condizioni di vita dignitose.
Trova alloggio prima presso la struttura comunale "Un Tetto per Tutti", poi presso la "Tenda di Abramo".
Viene presentato alla Caritas e comincia a frequentare il Centro Diurno presso la struttura del "Beato Ferretti". È il suo momento fortunato perché proprio in quel periodo ad Ancona prende avvio il progetto di solidarietà "Rifugiato a Casa Mia". Abdel viene accolto in una famiglia, dove c'è un papà e una mamma, i figli e qualche nipote. Sei mesi di serenità, di attenzioni reciproche, di scambi fecondi, ma anche di impegni, primo fra tutti la scuola da completare per ottenere la licenza media. Si crea un legame fraterno, ancora oggi vitale. Con la nuova famiglia scopre persino la neve in montagna, per un periodo di riposo, mentre con i ragazzi scopre la nostra città e nuovi amici. Chiede di frequentare una parrocchia dove c'è un gruppo dell'azione Cattolica giovanile.
Lui è mussulmano praticante ma si trova benissimo con i suoi coetanei di religione cattolica e non rinuncerebbe mai a stare con loro. Ed è stato così anche per loro e per il parroco.
Al termine del progetto viene accolto presso Casa Zaccheo, la struttura di seconda accoglienza della Caritas.
È il momento dell'impegno, delle regole, della progettazione, della costruzione delle basi per il suo futuro di autonomia e integrazione. Abdel si sofferma sulla figura e il ruolo dell'assistente sociale della Caritas che lo ha "preso in carico" sin dal suo arrivo nella nostra città. "Sono abituato ad essere sempre sincero con me stesso e con gli altri e se devo ringraziare qualcuno so che lo merita veramente, senza sconti. Oggi voglio ringraziare Stefania perché mi ha accompagnato in questo percorso con fermezza e comprensione. Devo dire che a volte ho fatto fatica ad accettare tutte le regole di Casa Zaccheo. Gli orari, la richiesta di relazionarsi quotidianamente con gli operatori, il dialogo come strumento di conoscenza ma anche di verifica dei risultati raggiunti, l'impegno continuo per raggiungere i traguardi concordati insieme. Ma ogni volta Stefania e tutta la squadra di supporto mi hanno ricordato che si trattava del mio progetto di vita.
Oggi grazie a quelle regole ho potuto ottenere la licenza media, ho frequentato con successo una scuola di formazione per Operatore Socio Sanitario, parlo bene l'italiano, ho cominciato a lavorare presso una cooperativa nel settore della cura alle persone, soprattutto anziani, un lavoro che amo moltissimo. Stefania è stata al mio fianco, sempre." Anche in questo caso dal suo sguardo inflessibile si affaccia un sorriso. Sincero come il suo cuore.
L'intervista volge al termine e così gli chiedo che cosa pensa della nostra città e dei ragazzi italiani.
Anticipo subito che non è la prima intervista che faccio ad un giovane africano. A questa stessa domanda ricevo un'identica risposta: "Non voglio giudicare nessuno, ma penso che ogni persona dovrebbe essere capita in profondità e valutata per quello che è veramente, nel suo cuore, non sulla base delle apparenze e dei pregiudizi. La stessa cosa potrei dirla a proposito di Ancona. Una città dalla storia antica, importante, bella, ma forse un po' indifferente, neutrale. Non c'è odio ma neanche amore, voglia di capire".
Per me è come una sentenza. Mette a nudo la nostra incapacità di incontrare l'altro, di ascoltarlo, di accoglierlo, di comprendere e gustare la ricchezza delle diversità, delle culture, delle spiritualità che si celano in ogni persona, in ogni angolo del mondo.
Ancora una domanda: come ti vedi
oggi, dopo un viaggio incredibile, iniziato 6 anni fa? "Il sogno che mi ha
strappato da casa non è ancora pienamente realizzato. Sono ancora nella fase
della costruzione.
Vuoi lanciare un tuo messaggio ai ragazzi africani che come te, hanno intrapreso questa sfida? "Certamente. Non abbandonare mai il sogno della propria vita".
"Oggi sono più sereno, ma sto ancora lottando per raggiungere il mio sogno. Un lavoro, una famiglia. Alzarsi ogni mattina senza ansia. Ringraziando Dio".
Oggi Abdel vive in un appartamento condiviso con un ragazzo italiano. Da loro si mangia un giorno all'africana (Abdel è specializzato) un giorno all'italiana.
L'intervista è durata solo un'ora ma per me è come se fosse durata… lo spazio di un viaggio senza tempo, senza confini. Nel cuore di un giovane già uomo saggio.